Storia
Come dichiara una curiosa iscrizione scolpita sul portale settentrionale (BIS BINI DEMPTIS / ANNIS DE MILLE DUCENTIS // INCEPIT DICTUS / OPUS HOC SCULTOR BENEDICTUS, ossia “Tolti due volte due anni al 1200 lo scultore Benedetto iniziò questa opera”), la costruzione e la decorazione del Battistero di Parma fu avviata nel 1196 sotto la supervisione del grande architetto e scultore Benedetto Antelami. Nel 1216 i lavori, progrediti fino al secondo ordine delle logge, furono bruscamente interrotti per gravi questioni di ordine politico, sfociati nell’assedio della città da parte delle forze imperiali di Federico II, protrattosi duramente dal luglio del 1247 al febbraio del 1248. I forti contrasti con la fazione ghibellina impedirono inoltre per lungo tempo il reperimento del principale materiale scelto per la costruzione del Battistero, ossia il prezioso marmo rosso proveniente dai territori veronesi, controllati da Ezzellino da Romano, fedelissimo dell’imperatore svevo.
Una volta risolti i conflitti che coinvolgevano la città fu possibile riprendere la costruzione dell’edificio sacro che fu completato entro il 1270, anno della sua solenne consacrazione; l'ultima galleria ad archetti ciechi, la balaustrata e i pinnacoli di coronamento furono comunque inseriti solo più tardi, tra il 1302 e il 1307.
Esterno
L’edificio, situato nella piazza compresa tra la facciata della cattedrale e il palazzo del vescovo, è a pianta ottagonale ed è caratterizzato da uno spiccato verticalismo, nonché dall’elegante alternanza tra il marmo bianco ed il pregiato marmo rosso di Verona. Per le sue peculiari caratteristiche architettoniche e decorative esso è considerato uno dei più significativi esempi della transizione dallo stile romanico a quello gotico. La sapiente alternanza fra pieni e vuoti che caratterizza la superficie esterna è pensata per ottenere raffinati effetti chiaroscurali. Al pian terreno, per esempio, gli archi a tutto sesto, entro i quali si aprono i tre portali strombati, sono intervallati da archi cechi, ciascuno dei quali presenta due colonnine architravate. I registri superiori sono invece costituiti da quattro ordini di loggette aperte, seguite da un ulteriore livello decorato con archetti ciechi, a sua volta coronato dall’elegante balaustra dalla quale si ergono otto pinnacoli. La pianta poligonale dell’edificio è infine accentuata dai poderosi contrafforti angolari che incorniciano le otto facce del Battistero.
Lo straordinario corredo scultoreo del Battistero è opera di Benedetto Antelami e della sua bottega. In questa impresa il maestro si dimostra degno erede della grande tradizione plastica del romanico emiliano, reinterpretato però in termini di maggiore eleganza e naturalismo, derivatigli dalla conoscenza, forse diretta, degli alti esempi della scultura gotica transalpina. La maggior parte dei rilievi furono eseguiti per decorare i tre grandi portali, ma altri se ne trovano comunque sul resto delle pareti esterne e all'interno dell’edificio. Si tratta nel complesso di un insieme unitario sia da un punto di vista stilistico che iconografico.
L’ingresso principale (il Portale del Giudizio), si apre sul lato occidentale. Nella lunetta è rappresentato Cristo Giudice, attorniato da Angeli reggenti i simboli della Passione e sormontato da una ghiera in cui sono raffigurati i Dodici apostoli seduti su un ininterrotto tralcio vegetale. In chiave d’arco, la teoria degli Apostoli è spezzata dalla presenza di due Angeli che suonano le trombe dell’Apocalisse. Nell’architrave posto sotto la lunetta è scolpito il tema della Resurrezione dei morti: al centro si vedono gli Angeli che suonano le trombe del Giudizio, sulla sinistra un sepolcro da cui fuoriescono le schiere degli eletti, sulla destra un altro da cui si ridestano coloro che verrano condannati al fuoco eterno. La decorazione del portale Ovest è completata dalle formelle dei due stipiti laterali: sulla sinistra sono raffigurate le Opere di Misericordia, sulla destra la Parabola della vigna e delle età dell’Uomo. Da notare che nei rilievi della lunetta sono visibili evidenti tracce dell’originaria policromia messa in luce dai restauri.
Il portale settentrionale (detto della Vergine) si affaccia sulla piazza principale ed era destinato ad accogliere il passaggio del Vescovo e del clero. Nella lunetta è scolpita la Madonna in trono col Bambino ai cui lati compaiono, i Re Magi a sinistra e l’Angelo che esorta Giuseppe a fuggire in Egitto a destra. Sulla fascia sovrastante si dipanano, tra i tralci vegetali, figure di Profeti con clipei contenenti ritratti degli Apostoli. Si tratta di un ingegnosa soluzione iconografica per simboleggiare la continuità fra il Vecchio e il Nuovo Testamento. L’architrave sottostante è diviso in due livelli: in quello inferiore si leggono i versi, inseriti fra patene, che tramandano il nome di Benedetto Antelami e la data iniziale dei lavori del Battistero; in quello superiore sono raffigurati vari episodi della vita del Battista (da sinistra: Battesimo di Cristo, Banchetto di Erode, Decapitazione). Gli stipiti sono stavolta decorati su due facce: quella frontale contiene a sinistra la Genealogia da Abramo a Mosé e a destra la Genealogia della Madonna; la parte interna di entrambi i piedritti prevede invece un’alta scanalatura seguita da un filare di racemi classicheggianti abitato da uccelli, simbolo delle anime del Paradiso.
Il terzo portale (detto della Vita), posto sul lato meridionale, era adibito all’ingresso dei catecumeni. Esso presenta una decorazione meno ricca rispetto ai due portali principali, ma non risulta per questo meno interessante. Nella lunetta è infatti rappresentato un episodio tratto dall’affascinante Leggenda di Barlaam, trasposizione in senso cristiano della leggenda di Buddha attribuita a San Giovanni Damasceno e successivamente inclusa nella famosa Legenda Aurea di Jacopo da Varagine. Al centro compare un albero frondoso, simbolo della vita, su cui siede un giovane che cerca di raggiungere un favo di miele (i beni terreni), noncurante del fatto che ai piedi dell’arbusto un drago sputa fiamme (l’inferno), mentre due roditori (il tempo edace) ne rosicchiano le radici. La figurazione è completata dai due carri del Sole e della Luna che incombono sull’albero della vita. La lunetta è sormontata da una ghiera con decorazioni vegetali. Sull’architrave sono inseriti tre clipei con l’Agnus Dei, il Redentore e il Battista.
Un altro elemento di rilievo della complessa decorazione concepita da Antelami per arricchire il paramento esterno del Battistero è rappresentato dal cosiddetto Zooforo: si tratta di una sorta di fregio continuo (le uniche interruzioni sono dovute ai tre grandi portali) che corre, quasi ad altezza d’uomo, intorno al perimetro dell’edificio. Le 75 formelle scolpite a bassorilievo rappresentano una congerie di figure umane, mostruose, ferine tratte dai bestiari medievali.
Interno
Il soffitto è ricoperto da una grande cupola ad ombrello frammentata in spicchi suddivisi da sedici nervature tubolari che, dipartendosi dal centro, scaricano il loro peso su altrettante colonne che intervallano due ordini di logge. Gli spicchi sono interamente decorati da smaglianti pitture eseguite tra il 1260-1270 e strettamente aderenti agli aulici modelli dell’arte bizantina. In sei fasce concentriche vengono svolte molteplici narrazioni tratte dal Vecchio e dal Nuovo testamento. In quella più bassa, sono rappresentate otto episodi della Vita di Abramo, ognuna delle quali inscritta in una lunetta archiacuta; nella seconda fascia è invece trattata la Vita del Battista; Nella terza, in corrispondenza dell’altare, è raffigurato Cristo glorioso con la Vergine e il Battista, attorniati da una teoria di Profeti e Re israeliti; nella quarta compaiono gli Apostoli e gli Evangelisti; nella quinta la raffigurazione della Gerusalemme Celeste; nella sesta e ultima, il cerchio rosso rappresenta l’Eterno Amore Divino.
Le pitture murali che decorano i catini del registro inferiore risalgono invece ai secoli XIV e XV. Tra essi spiccano i lavori del maestro del 1302, precoce esempio della diffusione del linguaggio giottesco in Valle Padana e lo splendido San Giorgio e il drago, capolavoro del grande artista toscano Buonamico Buffalmacco, grande protagonista della pittura gotica italiana e autore del famoso ciclo del Trionfo della Morte nel Camposanto di Pisa. I catini sono sormontate da lunette in cui figurano svariati altorilievi di scuola antelamica.
Nella settima nicchia è posto il piccolo fonte battesimale sostenuto da un leone accovacciato. Al centro dell’edificio spicca invece la grande vasca ottagonale in pietra di Verona, che ne contiene al suo interno una più piccola a forma di croce, destinata ad accogliere l’officiante e il catecumeno a cui doveva essere impartito il sacramento del Battesimo.
STORIA
Su una strada centrale della città di Piacenza si trova la piccola chiesa romanica di Sant'Ilario, di origine ospitaliera, che fu edificata intorno al XII secolo. Inizialmente era associata ad una farmacia e solo nel Cinquecento viene elevata a parrocchia, divenendo la chiesa patronale degli orefici. In seguito, fu sede della Congregazione del SS. Sacramento, nata nel 1576 per volontà del vescovo di Piacenza Paolo Burali per fornire ausilio ai pellegrini. Ma nel 1810 venne soppressa come parrocchia e, una volta chiusa al culto, fu adibita prima a magazzeno e poi a sede dell'Archivio Storico Comunale, oggi trasferito a Palazzo Farnese. A partire dal 1930 divenne oggetto di importanti interventi di restauro, che mirarono a riedificare la zona absidale, demolita nel XIX secolo e a ripristinare il rosone, che era stato sostituito nel XVIII secolo con una finestra rettangolare. Poi, restaurata recentemente dal Comune di Piacenza, è oggi adibita ad auditorium comunale.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
A differenza della struttura interna di questa chiesetta a navata unica che, dopo le trasformazioni del Cinquecento, non si presenta di particolare interesse, la facciata a capanna invece conserva gran parte della sua costruzione originaria, nonostante qualche aggiunta cinquecentesca. La facciata in mattoni è caratterizzata in basso da un significativo portale scolpito e in alto da una galleria di archi su colonnine e capitelli in pietra. Sono invece frutto di rifacimenti cinquecenteschi l'arco che incornicia il portale e i due archi ciechi laterali. Un vero e proprio capolavoro scultoreo romanico del XII secolo è proprio il portale dalla imponente strombatura, che esibisce stipiti con capitelli corinzi e un considerevole architrave istoriato a bassorilievo. Quest'ultimo, che riprende con toni più semplici l’architrave dell’ingresso destro del Duomo di Piacenza, raffigura il tema dell’incredulità di San Tommaso, un esempio di grande interesse per la scultura romanica padana e piacentina in particolare, fiorita proprio attorno al cantiere del Duomo. Questa scultura, in cui San Tommaso inginocchiato tocca con il dito il costato di Cristo che si trova in mezzo agli altri Apostoli con le braccia aperte e il libro in mano, viene spesso attribuita ad un artista modenese della cerchia di Wiligelmo. Nell'architrave, il racconto scultoreo appare molto serrato per il convergere dei personaggi, dai tratti vitalmente espressivi, verso la figura centrale di Cristo. Tutte le figure, che sono rappresentate in vari atteggiamenti, escono dai bordi dell’architrave e assumono una caratteristica a tutto tondo. Inoltre le tipologie dei volti e lo stile del basso rilievo rimandano alla scuola delle sculture della Cattedrale e sono anche tematicamente in sintonia con i suoi soggetti neotestamentari. Probabilmente però sono andate perdute molte altre sculture come quelle nella lunetta dove ora rimane solo un affresco sbiadito del Cinquecento e nelle travi della volta. Infine di notevole interesse è anche il coronamento della facciata, dove la galleria posta sotto la linea di gronda è contraddistinta da archi profilati da una risega e sormontata da una fascia di archetti pensili.
LETTURE CONSIGLIATE
A. Siboni, Il centro storico della città di Piacenza, Piacenza 1965.
P. Berzola, A. Siboni, Guida all'architettura romanica nel Piacentino, Piacenza 1966.
S. Stocchi, Sant'Ilario a Piacenza, in Italia Romanica. L’Emilia-Romagna, Milano 1984.
STORIA
In prossimità delle mura orientali all'interno del borgo fortificato di Vigoleno, frazione di Vernasca, si trova la pieve di San Giorgio, un monumento romanico ben conservato e di primario interesse anche per il prezioso contesto medievale nel quale è inserito. Infatti l'intero borgo, di forma elissoidale, è racchiuso da imponenti mura merlate e si distingue per l'eleganza delle sue forme e per l'integrità dell'impianto castrense. La chiesa di San Giorgio, che può essere considerata come uno degli esempi di architettura romanica sacra più importanti del piacentino, fu edificata intorno al XII secolo. In un primo momento faceva semplicemente parte della chiesa di Castell'Arquato, per poi essere riconosciuta nel 1346 come pieve del tutto autonoma. In seguito, a partire dal Seicento, fu sottoposta a numerosi interventi rinascimentali e barocchi di rimaneggiamento, contraddistinti dall'aggiunta del pronao, della cappella esterna e della copertura a volte delle navate. Ma queste integrazioni furono eliminate con il progetto di ristrutturazione della metà del Novecento, che ha avuto il merito di restituire all'edificio le sue linee prevalentemente romaniche e di mettere in luce il suo aspetto originale, austero e imponente. Inoltre la muratura originale è rigorosamente in pietra e appare costituita da conci ben squadrati, dove non è facile distinguere le integrazioni dalle sostituzioni eseguite dai restauratori.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
La facciata mostra un profilo a due salienti ed è tutta giocata sulla pluralità dei piani, rivelando una certa maturità costruttiva. Infatti le ali si trovano su una superficie arretrata rispetto al campo centrale e il portale è contenuto in una superficie avanzata di un gradino rispetto al fondo. In particolare, questo portale d'ingresso, di ottima fattura, è scolpito con colonnine dai capitelli fogliati ed è sormontato da una lunetta, incorniciata da una quadruplice ghiera. La lunetta contiene un rilievo dove è raffigurato San Giorgio che a cavallo uccide il drago, assistito da un angelo, opera di chiara scuola antelamica risalente probabilmente al Duecento. Poi, proseguendo per una stradina che scende lungo il fianco destro della chiesa, da dove si innalza in fondo il campanile, giriamo intorno al gruppo delle tre absidi che appaiono particolarmente imponenti per l'alto basamento su cui sono impostate. L'abside centrale è notevolmente più alta di quelle laterali incomplete ed è sormontata da un'elegante galleria di archetti e da una fascia sottogronda. Passando alla struttura interna della pieve, che ha un impianto basilicale a tre navate con copertura a capriate, essa appare molto sobria, austera e suggestiva in quanto integra in molte delle sue forme originarie. All'interno troviamo quattro coppie di maestosi pilastri in pietra coronati da capitelli scolpiti di epoca romanica dove risaltano prevalentemente motivi vegetali o figure differenti come sirene, uomini e draghi in lotta tra loro. Infine sono presenti anche alcuni resti di affreschi tardo-gotici sulle pareti, su qualche pilastro (come ad esempio l'affresco di San Benedetto visibile sulla terza colonna di sinistra e ascrivile al 1427) e nella conca absidale dove è ripreso il tema della lunetta all'ingresso con San Giorgio che uccide il drago, dipinto a vivaci colori e attribuito ad un ignoto maestro locale del XV secolo.
LETTURE COSIGLIATE
P. Berzola, A. Siboni, Guida all'architettura romanica nel Piacentino, Piacenza 1966.
E. Carrà, Vigoleno borgo medievale, Piacenza 1975.
S. Stocchi, San Giorgio a Vigoleno, in Italia Romanica. L’Emilia-Romagna, Milano 1984.
NOZIONI STORICHE
La pieve di San Donato in Polenta prende il nome dal centro abitato che la accoglie. La borgata appenninica ospita questo edificio di culto riconosciuto come monumento nazionale per via della sua rilevanza artistica, ma anche grazie alla celebrazione che ne ha fatto Giosuè Carducci nell’ode “La chiesa di Polenta”: poesia in cui viene citata la cordialità con la quale venne ospitato dagli abitanti di Bertinoro, in particolare dalla famiglia Polenta, Dante Alighieri. Francesca da Rimini era infatti la figlia di Guido da Polenta, committente della pieve.
Il primo documento riguardante la chiesa è datato 24 luglio 911, mentre altre citazioni sono ascrivibili sempre al X secolo; nelle epoche successive, nuove testimonianze rendono conto delle vicende correlate al complesso in epoca medievale e moderna. Si suppone che sostanziali stravolgimenti dell’emergenza artistica siano da ricollegarsi agli interventi di restauro, o per meglio dire di ricostruzione, databili al 1705. Infatti, radicali furono le trasformazioni apportate all’architettura primitiva, come ricorda un’epigrafe posta sopra l’ingresso. La cripta, l’abside e la copertura dell’edificio sacro furono demolite e riadattate in una nuova articolazione spaziale consona al gusto del XVIII secolo. Nel 1890 poi si tentò un’effettiva operazione di restauro che destò, per le modifiche in precedenza operate, non pochi problemi, solo capitelli e pochi altri elementi superstiti resero più agevole la ricostituzione della mappatura originale. Infine nel 1898 presero avvio i lavori di ricostruzione della torre campanaria, terminati l'anno successivo. Poco rimase, dunque, della struttura originaria, per tali ragioni la pieve nella sua manifestazione contemporanea richiede una contestualizzazione storica che tenga conto dei sostanziali cambiamenti operati su di essa, anche dalle ricostruzioni.
NOZIONI STORICO-ARTISTICHE
Come per altri edifici della regione l’articolazione della muratura è caratterizzata dall’utilizzo di differenti tipologie di materiali, è, infatti, determinata da una struttura composita che alterna la pietra al mattone. La pieve si presenta oggi con pianta basilicale a tre navate, con tre absidi che risultano di forma cilindrica, e con presbiterio sopraelevato raggiungibile tramite una scala posta al centro della navata. Al di sotto di questa troviamo la cripta a volta articolata su quattro colonne centrali. La navata è cadenzata da archi incorniciati e da una risega retta su pilastri anch’essi cilindrici, mentre i capitelli, tutti diversi tra loro, presentano smussature a forma di cubo. Le ascendenze della cultura longobarda e bizantina, furono probabilmente mantenute nel lessico romanico, è infatti particolarmente significativa in tal senso la decorazione a bassorilievo dei capitelli che s’integra quale componente fondamentale dell’edificio. Tali decorazioni sono caratterizzate da rappresentazioni zoomorfe, fitomorfe e geometriche, anche se una loro puntuale datazione risulta problematica a causa della persistenza di questi stilemi nella cultura artistica locale.
LETTURE CONSIGLIATE
Sergio Stocchi “Italia-Romanica/l’Emilia-Romagna”, Jaca Book, Milano 1984.
Fabio Lombardo “Pievi di Romagna”, Il Ponte vecchio, Cesena 2002.
Mario Mazzotti “La Pieve di San Donato in Polenta” Lega, Faenza 1964.
Gabriele Bacchi, Sonia Bacchi “Polenta: la pieve, la chiesa, il castello” La Mandragora, Imola 1996.
STORIA
A poca distanza dall'abitato in direzione di Carpineti, tra il 1076 e il 1092, viene edificata l'abbazia di Marola per munificenza della contessa Matilde di Canossa, come dimostrazione della sua riconoscenza nei confronti dell’eremita Giovanni da Marola, premiato per averla incoraggiata a proseguire la lotta contro l'imperatore Enrico IV. L'abbazia di Marola, divenuta successivamente sede di una comunità religiosa aderente alla regola benedettina, già nel Trecento comincia a mostrare i primi segni di decadenza, per poi essere trasformata in commenda precisamente nel 1348. Dopo l'ulteriore trasformazione seicentesca in residenza fortificata, nel 1747 l'edificio subisce dei radicali interventi di ristrutturazione in linee barocche, che ne mutano completamente l’aspetto originario, con il rifacimento della facciata e l'aggiunta del transetto e della cupola. La chiesa viene poi soppressa in epoca napoleonica e, dopo la Restaurazione, viene riscattata e donata alla Curia di Reggio che nel 1824 decide di destinarla a seminario. Quindi, in seguito a queste modiche richieste dal nuovo progetto, la pieve di Marola appare come un edificio di fine Ottocento, di gusto neomedievale, privo anche delle tracce dei chiostri antichi. Soltanto il parametro murario a fianco dell'abside, dove si trova il torrioncino, rivela l'esistenza di una struttura medievale e la compattezza degli edifici a lato della chiesa evoca la struttura dell'antico monastero. Tra l'altro, nel 1955, viene avviato un progetto di ricostruzione tendente a ripristinare il complesso nella sua struttura primitiva e a restituire l'immagine prevalentemente romanica.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
All'esterno, l'abbazia presenta una facciata sobria, largamente integrata, che appare costituita da doppio saliente e ornata da un portale in arenaria, affiancato da semicolonne con capitelli scalpellati ad intreccio. L'abside mediana, che si mostra imponente, nitida e pienamente romanica, domina le altre due absidiole più piccole e altrettanto ben definite. La parte centrale è aperta con una monofora a forte strombo ed è terminata da archetti ciechi sormontati da una triplice cornice. Passando all'interno, quest'ultimo è caratterizzato da una pianta basilicale a tre navate senza transetto, a cinque campate su archi a tutto sesto. Le tre navate sono inoltre suddivise da colonne e da pilastri che sorreggono archi semicircolari, mentre il tetto è a tre travi lignee su tutte le navate. I primi due sostegni sono costituiti da colonne cilindriche a differenza degli altri che sono pilastri a sezione squadrata. Le navate sono anche provviste di una copertura a capriate in legno a vista e il presbiterio, che occupa la quinta campata, ha copertura a botte. Infine, per quanto riguarda la decorazione scultorea, all'interno della chiesa è conservato un solo capitello originale di tipo corinzio, intagliato con motivi vegetali, fogliame a rilievo ed eleganti volute negli spigoli. Mentre gli altri capitelli si palesano come il risultato di chiari rifacimenti moderni; invero soltanto pochi frammenti pienamente romanici sono stati riuniti all'interno di un lapidarium del seminario. Tra quest'ultimi risulta interessante quel capitello che riporta un'iscrizione graffita con il ricordo di un'eclisse totale di sole, risalente al 1239.
LETTURE CONSIGLIATE
S. Stocchi, L'abbazia di Marola, in Italia Romanica. L’Emilia-Romagna, Milano 1984.
G. Baldini, Considerazioni su alcuni edifici e sculture romaniche del nostro Appennino: Marola, Rubbiano, S. Vitale delle Carpinete e Canossa, 1989.
F. Milani, Il territorio di Marola da Matilde di Canossa ai nostri tempi, Reggio Emilia 1992.
STORIA
La Pieve di San Michele Arcangelo in Acerbolis, prende il nome dell’omonima località che la ospita, una periferica frazione a sud dell’odierna cittadina di Sant’Arcangelo di Romagna, a pochi kilometri da Rimini. La chiesa si configura chiaramente come il monumento più antico della città, e dai recenti studi risulta ipotizzabile che l’edificio sia sorto su un primitivo insediamento romano Pagus Acerbolanus, probabilmente di proprietà della famiglia Galeria. La tradizione vede, infatti, questo complesso come consacrato nel 395 da Giovanni vescovo di Rimini, anche se il primo documento che ne accerta l’esistenza risale all’ 889. La struttura primitiva è infatti ascrivibile all’epoca bizantina (VI-VII secolo), mentre cripta e campanile sembra che appartengano a un intervento più tardo, eseguito presumibilmente nel periodo longobardo (VIII secolo). Quest’antico insediamento divenne mano a mano la base di stanziamento per i cittadini di Sant’Arcangelo, fu infatti intorno alla pieve che si sviluppò il centro abitato, ma successivamente, intorno all’anno mille, gli abitanti si trasferirono sul vicino Monte Giove, dove tutt’ora si trova l’attuale comune. Nonostante lo spostamento degli abitanti, l’architettura testimonia attraverso le sue caratteristiche attuali, una continuità d’uso nel tempo, la chiesa mantenne invero le sue funzioni fino al 1742, anno in cui venne realizzato un altro edificio di culto, la chiesa Collegiata, più vicina alla borgata di Sant’Arcangelo. Lungo le mura notiamo numerose aperture, tamponate in un secondo periodo, che manifestano la complessa storia di un tempio che destò evidentemente per lungo tempo un interesse vivo per i cittadini. Sì è volontariamente utilizzata l’espressione di “complessa storia” perché la pieve di San Michele rappresenta un’opera di grande fascino che non genera però una facile lettura storiografica, difficile risulta infatti la datazione dell’edificio contemporaneo. Il decadimento della struttura rese indubbiamente più difficoltose le operazioni di restauro, i primi interventi volti al recupero e al mantenimento, risalgono solo al 1912. Altresì, furono molte le operazioni di consolidamento sulla struttura nel corso del Novecento (1922, 1950 e 1970) che hanno determinato l’attuale aspetto dell’edificio.
NOZIONI STORICO ARTISTICHE
Sulla scorta degli ultimi restauri la pieve si presenta esternamente come una chiesa a navata unica con abside poligonale: sette sono infatti le porte murate che si possono contare lungo l’edificio, queste sono di diversa ampiezza l’una dall’altra, e venne mantenuta aperta solo la porta di accesso. Porta che testimonia altresì un rimaneggiamento, effettuato probabilmente in occasione dell’edificazione della torre campanaria, avvenuta in un secondo momento intorno al XI secolo. La facciata centrale, infatti, incorpora il campanile a sezione quadrata, il cui piano terreno è adibito (ancora oggi) ad atrio della chiesa. Due sono le porte per ogni lato della navata, altre due porte invece affiancano l’abside circolare, dove sono presenti anche resti della cripta risalente ai secoli X-XI. Per quanto riguarda l’esterno, notiamo come la muratura sia pienamente ascrivibile all’arte romanica del ravennate, è infatti realizzata in mattoni sottili con frequenti intersezioni in pietra. Mentre un interno luminoso dalle proporzioni perfettamente equilibrate riporta frammenti di notevole importanza, come un mosaico pavimentale databile al primitivo insediamento della famiglia Galeria, oppure interessanti prodotti scultorei ascrivibili all’Alto Medioevo. Vi sono inoltre resti di otto colonne di mattoni disposte intorno all'abside e sono emersi dai restauri lacerti di tubi fittili con cui era realizzata la calotta.
LETTURE CONSIGLIATE
M. Luisa Stoppioni, P. Angelo Fontana, M. Turci, Storia di Santarcangelo di Romagna, Il Ponte Vecchio, 1999.
M.Biordi, S.Nicolini, M.Turci, Guida per Santarcangelo, Maggioli Editore, 1988.
STORIA
Il primo documento scritto riguardante la Pieve di San Martino in Rafaneto risale al 1059, altresì la sua prima testimonianza certa è datata 1230. Talune informazioni ci raccontano che questo piccolo luogo di culto fosse il primitivo insediamento di Verrucchio, successivamente trasferitosi sulla cima della collina in posizione fortificata. Il nome originale era infatti Plebs Verucolin o Plebs Sancti Martini de Veruclo. Si presume che la costruzione sia ascrivibile al XII secolo, ma dai recenti studi, a fronte degli interventi di restauro, è stata ipotizzata l’esistenza di una precedente architettura, sorta sulle fondamenta di un insediamento romano; a conferma di tali ipotesi pervengono a noi numerosi ritrovamenti di mattoni manubriati e di altri frammenti. Durante gli scavi archeologici del 1893 sono state portate alla luce tre lapidi sepolcrali romane, d'epoca imperiale, e un orologio solare dello stesso periodo, che oggi sono conservate presso la rocca del Sasso. Il cenobio raggiunse il suo apice nei secoli a cavallo tra Medioevo e Rinascimento, mentre pervenne ad un progressivo decadimento a partire dagli inizi del XVII secolo, quando i suoi titoli furono trasferiti. Nei secoli successivi ha subito diversi riutilizzi agricoli, che hanno profondamente inciso sullo stato di conservazione dell’emergenza artistica, fino ai recenti ed ardui lavori di restauro e recupero che ne hanno rimesso in luce le parti romaniche originarie.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
La pieve è un edificio di culto realizzato con pietra locale, presenta delle parti originali di epoca medievale qualificandosi come un’opera organizzata secondo lo schema classico dell’arte romanica. Infatti, la presenza di un’unica navata con un’abside semicircolare, ascrivibile al X secolo, e la massiccia torre campanaria, sono emblemi di una cultura tardo-romanica ancora radicata in questo territorio nel XIII secolo. Questa chiesa si trova ai piedi della rupe di Verrucchio, fuori dall’abitato di San Martino in Rafaneto, e il suo utilizzo agricolo ha determinato l’inserimento della facciata in una casa colonica, oggi disabitata. L’edificio costituisce nel suo insieme architettonico un complesso di vigorosa imponenza. A determinare questa impressione vi concorrono innanzitutto le proporzioni del campanile, ma anche la geometria dell’abside preromanica, emergente dalla testata piana dell’unica navata, e soprattutto la rustica muratura di tutta la struttura, fatta di conci latini sommariamente squadrati e disposti in modo irregolare con pietre di diverso tipo e di diverso colore. Di particolare interesse sono le terminazioni parietali esaltate dalla presenza di grossi blocchi di arenaria squadrati alla perfezione. Per quanto riguarda l’assetto strutturale romanico, abbiamo già individuato due elementi per i quali quest’opera desta la nostra attenzione: la navata e il campanile. In tal senso risulta apprezzabile, nonostante l’asimmetria, anche la partitura delle feritoie. Negli interventi di restauro effettuati è emersa la presenza di prodotti scultorei ascrivibili all’ars romanica, come un rilievo decorato con rappresentazioni zoomorfe. Si tratta in questo caso di un rilievo logoro che non permette la perfetta lettura storico-artistica e che sembra rivelare la raffigurazione di un ariete, sovrastato dalla probabile rappresentazione di una collina stilizzata tesa a metaforizzare l’impedimento della vista del mare dalla chiesa. Proseguendo nel lato sud della navata troviamo quattro feritoie murate, l’ultima, quella verso l’abside, presenta un architrave decorato con motivi fitomorfi in rilievo. L’abside preromanica è aperta da tre finestrelle a doppio strombo ed è coronata da archetti pensili, mentre due lesene sono debolmente disegnate da corsi verticali quasi privi di aggetto. L’interno, cui si accede attraverso la casa colonica, rivela ciò che all’esterno non appare chiaramente: la chiesa è infatti interamente scoperchiata. Nonostante questo la muratura appare piuttosto salda, le teste dei muri sono sigillate da cemento e protette da coppi, e l’abside, inquadrata da un arco perfettamente ogivale, è stata restaurata con cura.
LETTURE CONSIGLIATE
S. Stocchi “Italia-Romanica/l’Emilia-Romagna”, Jaca Book, Milano, 1984.
C. Curradi, Pievi del territorio riminese nei documenti fino al mille, Rimini 1984.
L. Bernardi, Verucchio: guida storico-artistica illustrata, Verucchio 2004.
STORIA
La Pieve di Santa Maria di Castello sorge, in posizione isolata, sulla sommità di un colle che domina il paese sottostante di Toano, un piccolo borgo incastonato nello splendido paesaggio dei rilievi appenninici. La Pieve è annoverata tra i monumenti più significativi di architettura romanica presenti sul territorio di Reggio Emilia e tra i più antichi edifici di culto della diocesi reggiana. Non siamo in possesso di notizie storiche così sicure da poter stabilire con esattezza l'anno della fondazione della chiesa, ma il primo atto ufficiale che documenta la sua esistenza è costituito da un diploma emanato il 14 ottobre 980 dall’imperatore Ottone II, il quale cita la Plebem de Toano fra le maggiori pievi rurali dell’epoca. Nel secolo XI, la chiesa appare posizionata all'interno della cerchia muraria del castello fatto costruire da Bonifacio di Canossa, di cui però non rimane nessuna traccia a causa delle distruzioni del XIII secolo provocate dal conflitto tra guelfi modenesi e ghibellini reggiani. Durante il dominio della contessa Matilde di Canossa, la pieve viene sottoposta ad una serie di interventi di restauro che le conferiscono l'aspetto attuale. Quindi, l'edificio che oggi ammiriamo, sebbene sia stato fondato prima dell'anno mille, è da ascrivere proprio alla fine del XII secolo o agli inizi di quello successivo, sulla base dell'esame delle linee architettoniche attuali e dei capitelli. In occasione della seconda guerra mondiale, la Pieve viene gravemente danneggiata durante un rastrellamento tedesco del 1944 che provoca la completa distruzione del tetto, dei mobili e degli arredi liturgici, lasciando tracce ancora visibili sulle mura dell'abside e sui due grandi capitelli scolpiti. La ricostruzione della chiesa nel dopoguerra si è rivelata abbastanza cauta in quanto ha cercato di ripristinare il suo aspetto più fedele all'originale, anche se i fianchi e le absidi mostrano una muratura prevalentemente di restauro.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
A prima vista, colpisce la semplicità delle linee architettoniche che conferiscono al monumento una particolare solennità e una bellezza tipicamente romanico-lombarda. Partendo dall'esterno la chiesa, interamente in pietra e ricoperta da lastre di ardesia, presenta una struttura singolarmente tozza, con una facciata a capanna che è provvista di spioventi molto inclinati, di muri bassi e di una finestra rettangolare. Il portale conserva delle tracce di antica decorazione scultorea, che è stata cancellata dal tempo e dalle distruzioni militari. Anche la muratura esterna rivela la sua fisionomia antica nell'alternanza di conci ben squadrati con sassi grezzi disposti irregolarmente. Passando al presbiterio, quest’ultimo si prolunga rispetto alle testate delle navate laterali in modo tale che l'abside mediana sovrasti in altezza le due absidiole. L'interno, caratterizzato da una nuda spazialità, mostra le stesse linee tozze e vigorose che sono visibili all'esterno e conserva tutta la bellezza rustica e solenne delle costruzioni romaniche più antiche. La struttura interna è costituita da una pianta basilicale a tre navate, divise in due campate con copertura a capriate in legno. Come la navata mediana continua in un profondo presbiterio, coperto da volte a botte e delimitato dalla conca absidale, anche le navatelle si prolungano fino alle rispettive absidiole, ma con una posizione arretrata rispetto a quella centrale. Inoltre i sei capitelli, che coronano i pilastri e i semipilastri della chiesa, risultano di notevole interesse storico-artistico, in quanto obbediscono a un particolare simbolismo religioso e liturgico tipico dello stile romanico, che è riscontrabile anche in altre chiese reggiane risalenti allo stesso periodo. Infatti, sia i capitelli che le colonne possono essere messi in relazione con quelli della Pieve di Marola dove si riscontra, però, una maggiore raffinatezza e varietà nelle forme. Le decorazioni scolpite dei capitelli, delle lunette e delle architravi, che raffigurano motivi vegetali, geometrici e zoomorfi, sembrano richiamare elementi bizantino-ravennati, intrecci tipici dell’ars canusina, figure primitive a tutto rilievo e motivi con foglie stilizzate di acanto e tralci d’uva. In particolare, i quattro capitelli esterni sono scolpiti a fogliame e viluppi, con un motivo a treccia lungo l'abaco, a rilievo modesto. Per quanto riguarda i due capitelli centrali, quello di destra presenta un motivo a fogliame con i caulicoli intrecciati negli spigoli in modo da formare una debole voluta e un motivo di funi intrecciate che compare sull'abaco. Il capitello di sinistra, anche se consunto e mutilato, risulta il più singolare soprattutto per la presenza di elementi simbolici di grande interesse. Nelle quattro facce sono infatti scolpite delle aquile ad ali spiegate, ciascuna delle quali regge, con rostri o con artigli, differenti animali. Dagli spigoli sporgono inoltre figure umane quasi a tutto tondo (come ad esempio una a cavallo o l'altra che regge tra le mani un'arpa) in cui si possono identificare le storie di Davide. Nonostante un lessico scultoreo meno ricercato, nell’intervento è stata riconosciuta una certa influenza della cultura antelamica, da ascrivere al primo quarto del XIII secolo.
LETTURE CONSIGLIATE
F. Anceschi, Il Romanico a Toano, in Reggio Storia, n° 16, Reggio Emilia 1982.
S. Stocchi, Santa Maria di Castello, in Italia Romanica. L’Emilia-Romagna, Milano 1984.
Toano: natura, storia, arte. Atti del Convegno del 16 ottobre 1983, Reggio Emilia 1985.
STORIA
All'interno di un piccolo centro in provincia di Parma, Fontevivo, si erge l'abbazia di San Bernardo, un complesso monumentale particolarmente imponente che viene considerato come la prima filiazione diretta dell'abbazia di Chiaravalle della Colomba. L'anno della sua fondazione risale al 1142, ad opera di un gruppo di monaci cistercensi provenienti proprio dalla vicina abbazia piacentina, nell'ambito di un'iniziativa di bonifica del territorio circostante promossa dai marchesi Pallavicino di Busseto. Dopo la costruzione dell'abbazia di Fontevivo, che si protrasse per l'intero XII secolo e i primi decenni di quello successivo, le sue vicende storiche si rivelarono ben presto turbolenti, in quanto già nel 1245 fu occupata e saccheggiata dalle milizie di Federico II di Svevia. I cistercensi rimasero a Fontevivo fino al 1546, proprio quando l'abbazia passò sotto la giurisdizione benedettina di San Giovanni Evangelista di Parma, per intercessione dei Farnese. Se al momento della sua fondazione l'edificio monastico venne strutturato secondo lo schema tipico delle abbazie cistercensi (con un chiostro quadrato centrale attorniato da altri ambienti come la chiesa, la biblioteca e il refettorio), nel 1733 divenne sede del Collegio dei Nobili di Parma, subendo delle radicali trasformazioni. In seguito, a partire dalla metà del XIX secolo, la chiesa cominciò ad essere utilizzata dal comune di Fontevivo e adibita a parrocchiale ordinaria.
NOTIZIE STORICO-ARTISTICHE
Gran parte dell'intero complesso dell'abbazia di Fontevivo appartiene di sicuro ai rifacimenti del XVII e XVIII secolo, ad eccezione però della sola chiesa di San Bernardo che ancora oggi, in seguito ai recenti interventi di restauro, continua a conservare il suo originario aspetto romanico. Ma con la struttura della chiesa, che rispecchia lo stile modulare della costruzioni cistercensi, contrasta apertamente la sua facciata in mattone, in quanto quest'ultima fu ricostruita nel Quattrocento e risentì maggiormente dei rifacimenti di quel periodo. Una decorazione particolarmente elaborata e la ripetizione di un motivo ad archetti pensili a tutto sesto domina soprattutto nel fianco, nel transetto e nell'abside della chiesa. A questo proposito dalla veduta absidale, che è la più interessante del complesso, risaltano le linee tipicamente cistercensi che, nonostante la loro asciutta struttura geometrica, aggiungono movimento all'insieme. La testata dell'abside e quelle del transetto, delineate da contrafforti angolari, mostrano una netta somiglianza in altezza, larghezza e nel profilo cuspidato a triangolo. Tra i tre bracci sono inseriti i volumi più bassi delle due cappelle affiancate al presbiterio e dall'incrocio si alza il tetto a piramide che sovrasta la cupola. Passando invece all'interno, quest'ultimo viene reso nitido e luminoso dalle superfici intonacate di chiaro a cui si affiancano le strutture portanti, come pilastri, archi e costoloni, che spiccano con il color rosso del mattone. La pianta della chiesa, che richiama quella di Chiaravalle della Colomba, è a croce latina, con il presbiterio poco profondo e con il piedicroce diviso in tre navate, ricoperte da volte a crociera a sistema alternato. Oltre ai capitelli in pietra, decorati a foglie, palme e rosette, risultano interessanti anche i pilastri quadrilobi, dove tra le semicolonne si inseriscono due o tre pilastrini, ad ognuno dei quali corrisponde, sopra il capitello, una membratura da sorreggere. L'interno della chiesa custodisce inoltre preziosi monumenti scultorei di notevole rilievo storico e artistico. In una nicchia della seconda navata, ricavata nel muro perimetrale di destra, è infatti conservata la “Madonna col Bambino”, una statua in pietra policroma della fine del XII secolo che è stata attribuita a Benedetto Antelami. É un'opera notevole, oltre che per la delicatezza delle sue linee e per la qualità scultorea, anche per le ampie tracce di colore rimaste sulla pietra, che testimoniano come le sculture romaniche venissero spesso completate con vivaci coloriture. Il ritrovamento ha permesso la rivendicazione dell'alta qualità di questa Madonna che, nel panneggio dalle forme arrotondate, siede con il Bambino in grembo e un fiore in mano. La statua mostra delle somiglianze dei tratti e dei profili con le tante figure presenti nei timpani, nelle nicchie e nelle solenni personificazioni dei mesi dell'anno all'interno del Battistero di Parma. Sono stati evidenziati dei rapporti strettissimi con le altre figure eseguite sempre dall'Antelami: la Madonna al centro del portale settentrionale dello stesso Battistero parmense e la monumentale statua del campanile di Fidenza. Ma dal volume compatto della Madonna di Fontevivo emergono dei tratti così dolci e pacati che sembrano differenziarsi dalle forme molto squadrate della Madonna di Parma e dal panneggio solenne e togato di quella di Fidenza. Anche la minore dimensione, l'assenza di monumentalità e la collocazione non ostentata contribuisce a creare un linguaggio meno aulico e quindi più realistico e suadente rispetto a queste simili sculture. Infine, ritornando agli altri tesori scultorei della chiesa abbaziale di Fontevivo, nel braccio sinistro del transetto, troviamo la lastra tombale, in marmo rosso, appartenente al marchese Guidone Pallavicino, cavaliere templare e benefattore dell'abbazia di Fontevivo e il sarcofago marmoreo di Ferdinando di Borbone, che fu duca di Parma prima di Napoleone e morì nel 1802.
LETTURE CONSIGLIATE
A. Galletti, L’abbazia “nullius” di Fontevivo, in I monasteri italiani della Congregazione sublacense, Roma 1972.
S. Stocchi, L'abbazia di Fontevivo, in Italia Romanica. L’Emilia-Romagna, Milano 1984.
M. C. Basteri, L'abbazia di Fontevivo: quaderno didattico per una visita attiva e partecipata, Fontevivo 2007.
La Pieve romanica di San Pietro in Messa, si trova nella località di Ponte Messa, a pochi chilometri da Pennabilli, in provincia di Rimini. L’attuale struttura del tempio risale al XII secolo, ma alcuni documenti testimonierebbero l’esistenza della Pieve già nel 912. Quel che è certo è che il luogo scelto per la costruzione dell’edificio corrispondeva ad un preesistente sito romano, come rivela l’antica ara romana che ancora fa da base all’altare. Non a caso, l’insediamento romano sul torrente Messa, da cui deriva il nome dell’attuale paese e della stessa Pieve, rappresentava un punto strategico dell’iter Tiberinus. La zona fu evangelizzata nel V secolo e cadde prima in mani longobarde, poi franco-carolinge. Nel XII secolo l’edificio fu interessato da una radicale opera di riqualificazione, quasi certamente opera di maestranze lombarde. Le forme attuali della Pieve dichiarano infatti l’appartenenza al più tipico stile romanico padano: la facciata a capanna, con due salienti laterali, rispecchia la pianta basilicale interna a tre navate, una centrale più alta, due laterali di dimensioni ridotte. Sul portale di ingresso, di particolare finezza cromatica, si notano i resti di un protiro, sopra il quale si apre una piccola bifora divisa da una colonnina in pietra. L'archivolto del protiro poggia su due lastre rettangolari, sotto le quali sporgono due mensole di pietra, scolpite con figure simboliche. Nella mensola di destra compare l'immagine di un Cane alato che ringhia; nella faccia interna si scorge invece un Dragone con la coda attorcigliata. Sugli spigoli è istoriata, da un lato, un’Aquila con le ali spiegate, dall'altro, una Testa d'ariete con le corna arcuate. Al centro, l'Albero della vita, simbolo cristologico. Nella mensola sinistra, in entrambe le facce laterali ricorre un nastro intrecciato. Il resto della facciata è animata da lesene verticali e cornici orizzontali. Girando intorno all’edificio è possibile ammirare la piccola torre campanaria quadrata, che si erge al termine del fianco sinistro, ed il sobrio catino absidale semicircolare, squarciato da monofore centinate. Lo spazio interno è suddiviso da quattro arcate a tutto sesto, rette, nelle prime tre campate, da pilastri poggianti su plinti quadrati e, nell’ultima, da semipilastri a sezione quadrata. L’ambiente appare spoglio, poiché gli ornamenti originali sono andati in gran parte perduti. Si trovano comunque capitelli residui, intagliati con varie figurazioni. Della cripta rimane solo il portale d’ingresso, mentre nell’abside si possono scorgere tracce dell’antica decorazione. Il visibile impoverimento della Pieve fu dovuto al graduale abbandono del sito. Nel XVI secolo il fonte battesimale du trasferito nella Collegiata di San Bartolomeo in Penna e nel corso del ‘700 la chiesa fu ristretta e adibita in gran parte a casa colonica. Solo alla fine dell’ultima guerra l’antica Pieve fu restaurata e restituita alla sua originaria funzione religiosa.
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